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PRIMO PIANO RITRATTI ITALIANI

Lella Golfo: “L’Italia esce dalla crisi incentivando il lavoro delle donne e investendo sull’imprenditoria femminile”

Lella Golfo, icona della questione femminile in Italia, una fuoriclasse determinata, perseverante, empatica ed intelligente. Di rara modestia. Presidente della “Fondazione Marisa Bellisario”, Deputata della Repubblica Italiana dal 2008 al 2013, ha sostenuto nella sua lunghissima carriera la lotta verso l’emancipazione professionale delle donne e della promozione del loro valore aggiunto nel mondo del lavoro e in società. È ideatrice e fondatrice del “Premio Marisa Bellisario”, che domani celebrerà la sua trentaduesima edizione su Rai1 in seconda serata, condotto da Laura Chimenti e dedicato alle imprenditrici, manager, professioniste che rappresentano un’opportunità di sviluppo economico e di crescita sociale e culturale per l’Italia, e alle donne impegnate nella conquista dei diritti umani e civili. 

Presidente Golfo, quando ha sentito chiaramente il dovere di dare il suo contributo per il progresso di un segmento della nostra società? E chi è il personaggio femminile che l’ha colpita maggiormente nella sua lunga carriera e perché?

Quell’impulso l’ho sentito sin da giovanissima e nel mio piccolo, ancor prima di aver compiuto la maggiore età, mi sono sempre impegnata per difendere i più deboli. E forse facevo anche politica prima di capire cosa fosse la politica, forte di ideali di altruismo e principi di parità e democrazia che mi avevano trasmesso i miei genitori. Il mio primo impegno pubblico credo sia stato per difendere i diritti delle gelsominaie e delle raccoglitrici di olive della mia terra, la Calabria: donne indegnamente sfruttate. Quanto alla figura femminile, certamente Marisa Bellisario era per noi giovani l’esempio di una parità dimostrata. Nel mio libro “Ad alta quota. Storia di una donna libera” racconto che non conoscevo Marisa quando decisi di ideare un Premio in sua memoria ma, come tante mie coetanee, eravamo colpite dal suo protagonismo in un tempo in cui la leadership femminile non era contemplata. Le sue idee, i progetti, le sua convinzioni e azioni sono di una lungimiranza che sconvolgono ancora oggi. Marisa ha anticipato di decenni quello che sarebbe avvenuto, non solo sul fronte femminile ma nell’economia mondiale. La sua intelligenza, la preparazione e determinazione, tutte femminili, dovrebbero ispirare tutta la classe dirigente italiana e non solo le donne.

È sua la Legge Golfo del 2011 che introduce le quote di genere nei CDA delle società quotate e controllate. Perché era necessaria l’introduzione di questa legge in Italia?

Ho sempre sostenuto che la legge sulle quote è stato l’antibiotico per guarire un Paese malato. La malattia dell’Italia era, e purtroppo resta ancora, un maschilismo che dalla cultura si estende al potere. Nel 2009, quando presentai la proposta, le donne nei CdA delle società quotate erano appena il 5.6% e la Banca d’Italia aveva calcolato che ci sarebbero voluti 50 anni per arrivare al 30%. Oggi abbiamo raggiunto il 38,5% di donne nelle sole società quotate, siamo passati da 170 a oltre 800 donne (475 i sindaci donne) e secondo le stime nei soli prossimi tre anni entreranno altre 180 Consigliere. Nelle società controllate siamo passati dal 17,5% del 2014 al 31% di oggi con oltre il 40% di donne nei collegi sindacali. Per non parlare degli effetti qualitativi prodotti: board più giovani e istruiti, con maggior attenzione ai temi della sostenibilità e della diversity; performance aziendali migliori e un miglior apprezzamento da parte degli investitori.

La norma è stata certamente voluta da una donna e sostenuta da donne ma poi sono stati i fatti e il mercato a promuoverla a pieni voti! Molte società hanno introdotto volontariamente modifiche statutarie per garantire l’equilibrio di genere, Borsa italiana ha ribadito il principio nel suo codice di Autodisciplina e anche Assogestioni ha promosso politiche di selezione dei candidati alle cariche di minoranza che prevedono la presenza del 45% di donne. Un provvedimento rivelatosi tanto utile e necessario da portare il Parlamento alla sua proroga per altri tre mandati, innalzando l’asticella della quota al 40%. Una legge che non solo ha catapultato l’Italia dal fondo alla cima delle classifiche europee in tema di donne ai vertici ma si è rivelata un vero e proprio manifesto di parità che ha trascinato con sé una lunga serie di trasformazioni della società, dell’economia e della politica italiane. Una rivoluzione culturale, insomma, che ha segnato profondamente il nostro Paese e di cui sono molto fiera.

Le donne come lei danno voce anche a tutte le donne che non hanno i mezzi adeguati per difendersi e farsi valere. Cosa manca in Italia ancora nel 2020 per assicurare pari diritti e pari dignità alle donne che si occupano di molteplici aspetti della vita sia familiare che lavorativa?

Servono più donne in politica e ai vertici delle istituzioni e delle imprese che mandino giù quello che io chiamo “l’ascensore di cristallo”. Il tema della leadership femminile è sempre stata una mia priorità perché credo che abbia molteplici ripercussioni. Prima di tutto è innegabile che solo con una maggiore presenza di donne nei luoghi in cui le decisioni vengono prese avremo strategie politiche ed economiche più attente a garantire parità e meritocrazia. Poi perché sono convinta della forza dell’esempio e dell’emulazione.

Nel 2017 abbiamo intitolato la XVIII edizione di Donna Economia e Potere “Il Potere delle Donne”: un titolo impegnativo e che ci rappresenta. Sin dalla sua nascita, la Fondazione Marisa Bellisario lavora perché le donne conquistino il Potere e ne facciano buon uso e perché non sia appannaggio di poche ma l’ambizione di ogni donna. Da sempre, proviamo a spiegare alle Donne che quel Potere lo meritano e devono rivendicarlo, che spetta a loro quanto agli uomini, che la vera parità passa anche e soprattutto per un equilibrio nella sua gestione. Il “Potere” non una colpa né una “brutta parola”: al contrario, esercitato con onestà e nell’interesse generale, è la strada per il progresso democratico. Quindi, per rispondere in una frase, credo che manchino più donne al potere, capaci di cambiare la cultura del Paese ma anche di garantire nei fatti il rispetto delle pari opportunità. Le donne che lei dice “non hanno mezzi adeguati” devono essere messe in condizioni di competere ad armi pari: nel lavoro, in famiglia, nella società. Solo allora potremo dire di vivere in un Paese democratico e civile e potremo sperare di lasciare ai nostri figli una società e un’economia sostenibili e inclusive.

Spiace dirlo, ma il mondo è ancora troppo maschilista e molte donne devono subire la presunzione di superiorità professionale ed intellettuale di molti uomini.
Bisognerebbe intervenire sulla scuola e sulla famiglia, per cambiare una cultura troppo radicata, ancora viziata da comportamenti ritenuti normali. Quale potrebbe essere la ricetta per promuovere una cultura del rispetto e della parità secondo lei?

Per cambiare la cultura e sradicare pregiudizi millenari è necessario che scuola, famiglia, società, istituzioni agiscano insieme e nella stessa direzione: è un lavoro di squadra che certamente richiede tempo ma si può e deve fare! Certamente, la parità va insegnata nelle scuole e nel documento che abbiamo prodotto con la task force “Donne per un nuovo Rinascimento” – promossa dalla Ministra Bonetti e di cui sono componente – le proposte in questa direzione sono molte e non dubito che la Ministra le porterà avanti con decisione. Oltre al tema dell’educazione e formazione, per esempio, abbiamo affrontato anche quello degli stereotipi, da estirpare anche con campagne di comunicazione mirate e capillari.

Poi ci sono la famiglia e la società, che dovrebbero trasmettere valori di equità non solo a parole ma con l’esempio. Per diventare un adulto senza pregiudizi, un bambino deve crescere in una famiglia in cui entrambi i genitori lavorano, in cui le responsabilità sono equamente divise, in cui la mamma è economicamente indipendente e vige rispetto reciproco e collaborazione. E, una volta cresciuto, darà per scontato che una ragazza possa intraprendere qualsiasi strada e che la meritocrazia rappresenti l’unico criterio di accesso al mondo del lavoro. Ma per trasmettere questo messaggio di parità, una famiglia ha bisogno che la società e lo Stato non la contraddicano. C’è bisogno di parità di accesso e carriera nel mondo del lavoro, di congedi parentali, di un welfare che non lasci sulle donne il carico di cura dei figli ma anche di donne ai vertici. Il Premio Marisa Bellisario, per esempio, cerca di valorizzare esempi di “donne che ce l’hanno fatta” e di mostrare alle giovani che non esistono mestieri da donne ma semplicemente mestieri e che con il lavoro duro e l’impegno non c’è traguardo che una donna non possa raggiungere. Anche la legge sulle quote di genere ha svolto questa funzione e in pochi anni è riuscita a imprimere un cambiamento sostanziale alla cultura italiana.

Il punto è che tutti – la politica per prima ma anche le imprese, le famiglie, la scuola, la società civile – dobbiamo lavorare per affermare una cultura della parità senza se e senza ma. Perché, come afferma l’Ocse, la parità è la pietra angolare della modernizzazione.

Ci sono donne molto capaci anche ai livelli intermedi nel mondo del lavoro. Ma che non possono progredire in carriera perché la situazione economica spesso non permette loro quella libertà d’azione, quella serenità riservata alle donne più privilegiate. Lei come pensa si possa risolvere questo gap? Crede che abbiamo speranze?

Marisa Bellisario diceva che per una donna fare carriera è più difficile ma anche più divertente. A ostacolare le carriere femminili sono a mio avviso due fattori. In primo luogo, dentro le imprese sussiste ancora un atteggiamento maschilista per il quale, a parità di requisiti, per un ruolo di vertice viene privilegiato un uomo. Questo è il primo nodo da sciogliere e devo dire che in questi anni dentro le imprese – grazie anche alla nostra continua attività di “pressing” – sono stati fatti molti passi avanti nella direzione di una maggiore meritocrazia. Certo, ancora tanto deve cambiare, soprattutto a livello di organizzazione del lavoro e di corretto approccio alla maternità, ancora vista in modo errato dai datori di lavoro.

Il secondo ostacolo alla carriera femminile è poi rappresentato dall’assenza di servizi e questo, come Lei dice, distingue le “privilegiate” dalle altre donne. Su questo fronte, la Ministra Bonetti si sta impegnando con serietà e il ‘Family Act‘ contiene molte misure che in parte risolveranno i problemi di conciliazione che l’Italia si trascina da anni e che minano non solo la crescita della società ma la stessa produttività del nostro sistema economico. Le carriere femminili sono un problema importante ma ancor più lo è il tasso di disoccupazione su cui abbiamo una tradizione di tristi primati.

Perché in Italia è così difficile investire sulle donne e sulla famiglia come fanno altri Paesi più illuminati come la Francia, la Germania o la Svezia, con contributi mirati al sostegno economico? Manca la visione?

Manca la volontà di una classe politica composta in maggioranza da uomini! Voglio essere fiduciosa, mi auguro che le cose stiano cambiando e noi da sempre lavoriamo in questa direzione. Forse la tragedia Covid ha contribuito a farci riflettere sull’insostenibilità dell’attuale sistema e forse stiamo iniziando a capire che senza un reale sostegno alle famiglie, alla maternità, alle donne, non andremo lontano.

L’impatto del Covid sulle donne è un tema su cui sta insistendo molto anche l’ONU.Dalla salute all’economia, dalla sicurezza alla protezione sociale. Come si può invertire secondo lei, questa deriva pericolosa in un contesto già fragile come quello italiano? Da anni si parla della necessità di incentivare l’imprenditoria femminile da Sud a Nord, una porzione di mercato che potrebbe essere di grande sostegno alla produttività e dunque all’economia del nostro Paese. Eppure il cambiamento è lento. 

Dall’inizio della pandemia con la Task force “Donne per un nuovo Rinascimento” abbiamo lavorato duramente per trovare soluzioni che da una parte riescano ad arginare il rischio che le donne paghino il prezzo più caro della crisi e dall’altro le mettano al centro della ripartenza.

Le fragilità italiane, già prima della terribile pandemia, erano tante. Siamo tra i Paesi con il più basso tasso di occupazione e di natalità. Da noi si parla di guerra demografica e all’alba del 2020, in Italia le donne sono ancora costrette a scegliere tra lavoro e famiglia e a faticare il doppio per fare carriera, per non parlare del gap salariale, che aumenta in proporzione al ruolo. A febbraio, con la Presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, abbiamo presentato al Senato il “II Rapporto Fondazione Marisa Bellisario-Cerved sulle donne ai vertici“: nonostante la legge sulle quote di genere, sono ancora poche, troppo poche, soprattutto nelle società private. Ma forse ancora più grave è quel 37% di madri tra i 25 e i 49 anni che risulta inattivo e quel 14% che abbandona il lavoro nel primo anno di vita del figlio perché magari non sa a chi lasciarlo visto che di posti negli asili italiani non ce ne sono (3 bimbi su 4 non possono frequentarli) e le rette dei privati aumentano a un ritmo molto maggiore dell’inflazione. Eppure, gli economisti sostengono ormai unanimi che un’equilibrata presenza femminile a tutti i livelli è garanzia di sviluppo e non a caso, i Paesi con un più alto tasso di crescita del Pil sono quelli in cui la partecipazione femminile al mondo del lavoro e all’economia è maggiore (partendo dalla Germania, dove l’occupazione femminile sfiora l’80%).

È chiaro che, nel nostro Paese più che in altri, il Covid può essere una miccia letale per la già labile situazione femminile. Basti pensare che, secondo l’ultimo Rapporto di Unioncamere sull’imprenditoria femminile, nel secondo trimestre 2020 le iscrizioni di imprese femminile si sono ridotte del 42% (oltre 10mila imprese in meno). Un segnale pericolosissimo per l’intera economia se pensiamo che le imprese femminili hanno contribuito al 75% dell’incremento complessivo di imprese italiane. Per non parlare dell’occupazione femminile che rischia di precipitare ulteriormente visto che le donne sono maggiormente impiegate nei settori più colpiti dalla pandemia, spesso con contratti precari e part time. Per non parlare dell’uso che si è fatto dello smart working che ha gettato sulle spalle delle donne una mole di lavoro immane, rischiando di “ghettizzarle” ulteriormente. Insomma, se non corriamo subito ai ripari – anche con un uso massiccio dei fondi messi a disposizione dall’Europa – rischiamo davvero di fare un passo indietro di 30 anni sul fronte femminile.

Il documento presentato dalla nostra Task force contiene proposte concrete che abbracciano quelle che sono a nostro avviso le priorità per l’empowerment femminile: occupazione e imprenditoria femminile, welfare e conciliazione ma anche formazione e STEM, lotta agli stereotipi e potenziamento della presenza femminile ai vertici.

Bisogna prima di tutto moltiplicare gli incentivi e gli sgravi alle imprese per l’assunzione di donne e gli investimenti sull’imprenditoria femminile, soprattutto al Sud. Non dimentichiamo che il valore aggiunto prodotto dalle imprese guidate da donne arriva a quasi 300 miliardi di euro cui si aggiungono altri 200 miliardi di quello realizzato dalle lavoratrici dipendenti in imprese maschili. Abbiamo pertanto proposto un fondo per le micro-imprese guidate da donne con l’obiettivo di creare nuova occupazione femminile e tamponare la disoccupazione femminile causata dal COVID-19, privilegiando al contempo comparti ‒ i servizi in generale e i servizi all’infanzia in particolare ma anche il turismo e il commercio ‒ e territori ‒ il Mezzogiorno ‒ che più necessitano di sostegno e più possono contribuire alla ripartenza del sistema economico nazionale.

Al contempo, bisogna agire sul fronte della conciliazione, con un sostegno reale e non una-tantum alla maternità e politiche di welfare integrate pubblico-privato, come si propone di fare il Family Act fortemente voluto dalla Ministra Bonetti e come farà l’assegno universale appena approvato dal Parlamento. Le aziende italiane stanno facendo la loro parte. Il 56% delle grandi ha avviato progetti strutturati che introducono flessibilità di orario, luogo e strumenti (per loro la Fondazione ha istituito il “Premio Azienda Work Life Balance Friendly” in collaborazione con Confindustria) e anche le PMI si stanno attrezzando (per loro c’è la IV edizione del “Premio Women Value Company“, in collaborazione con Intesa Sanpaolo). Noi proponiamo di avviare un piano concreto per la creazione di centomila posti in più negli asili nido in cinque anni, da realizzare anche con l’aiuto delle aziende, con l’incentivazione della micro-imprenditoria femminile e con il contributo del terzo settore. Ma bisogna anche pensare a rimodulare gli orari scolastici e tenere le scuole aperte tutto l’anno come accade in Europa. Insomma, dobbiamo consentire alle donne di conciliare carriera e famiglia.

È anche necessario agire sul fronte del gap retributivo, con una legge che obblighi le aziende (e non solo quelle con più di 100 dipendenti!) non semplicemente a “dar notizia” del trattamento salariale riservato ai dipendenti (ogni due anni, secondo la normativa esistente) ma che preveda multe per chi non rispetta la parità salariale, come avviene in Islanda (grazie a una legge) e in Francia. Serve poi moltiplicare gli sforzi perché sempre più le ragazze scelgano indirizzi di studio STEM perché lì ci sono e ci saranno sempre più le maggiori opportunità di occupazione

Infine, abbiamo proposto strumenti concreti per favorire e rafforzare la leadership femminile e la parità ai vertici dell’economia e delle istituzioni. Per avere una classe dirigente in grado di affrontare le sfide che ci aspettano, dobbiamo rendere il potere contendibile sulla sola base del merito. Un potere che parli entrambi i generi, che contemperi diverse sensibilità e visioni sarà un potere più equo e lungimirante, capace di imprimere uno sviluppo sostenibile e inclusivo.

Il suo impegno si è profuso anche a livello internazionale, in Cina, in India, in Kosovo, in Afghanistan. Cosa l’ha spinta a guardare oltre i confini nazionali?

Sempre le donne! Le numerose missioni all’estero intraprese con la Fondazione Marisa Bellisario sono tese sia al sostengo immediato delle donne nei Paesi in Via di Sviluppo, sia alla promozione di nuove realtà imprenditoriali femminili e al rafforzamento di rapporti di cooperazione e collaborazione con le associazioni femminili in tutto il mondo. L’obiettivo è fornire alle donne in difficoltà strumenti concreti e innovativi per diventare autentiche protagoniste della crescita e dello sviluppo economico dei propri Paesi. E, insieme, rafforzare un network femminile con ramificazioni in tutto il mondo, affinché lo scambio di esperienze possa divenire un momento di crescita e arricchimento reciproci. Un impegno concreto e fattivo che, nel 2005, ci ha fatto ottenere il riconoscimento come Organizzazione Non Governativa.

Dal punto di vista umano e personale, poi, ogni missione mi ha lasciato qualcosa: i volti dei ragazzi in Kosovo, le donne vittime di violenza in Afghanistan, le ragazze e i ragazzi poveri degli slums attorno a Bangalore in India, le donne forti e intraprendenti del Rwanda, i bimbi dell’orfanotrofio La Crèche di Betlemme guidato da Suor Sophie Boudri, la ferma determinazione delle imprenditrici cinesi, tunisine e argentine… Ho sempre amato molto viaggiare e farlo con le donne e per le donne è stata ed è la più bella delle esperienze: ti apre la mente e il cuore.

Nel 2013 lei resta esclusa dalle liste elettorali del PDL. In quell’occasione più di 400 donne manager, imprenditrici ed economiste, diedero risalto alla notizia sulle pagine del Corriere della Sera, del Sole 24 Ore e altri quotidiani. Che effetto le fece quella solidarietà e per quale motivo secondo lei una donna del suo spessore non fu ricandidata?

Quella solidarietà mi commosse. Diciamo che abbiamo anticipato di un bel po’ di anni la challenge #womensupportingwomen! Non nascondo che quella mancata candidatura fu una grande delusione per me. Ero alla mia prima legislatura, avevo accettato la candidatura ed ero entrata in Parlamento per portare avanti le istanze femminili e ho tenuto fede al mandato per il quale ero stata eletta. In quella legislatura furono approvate solo una quarantina di leggi d’iniziativa parlamentare e una di queste era la norma sulle quote di genere, che avevo portato all’approvazione con un consenso bipartisan. Nonostante la contrarietà dei poteri forti, fuori e dentro il Palazzo, avevo raccolto attorno a me migliaia di donne e insieme eravamo riuscite a far approvare una norma che ha rivoluzionato il volto della nostra economia e ci ha reso esempio e modello in Europa. Credo che in quei mesi di dura lotta io sia riuscita nel miracolo di restituire a tante donne l’entusiasmo e la fiducia in una politica che sembrava essersi dimenticata di loro. Donne di destra, centro, sinistra si sono unite attorno a me in una battaglia di civiltà, al di là e al disopra degli schieramenti, come la politica con la “P” maiuscola dovrebbe saper fare. Si figuri che alla vigilia delle lezioni avevo anche presentato un’Agenda delle donne sulla quale impegnare tutti i partiti!

Sui motivi di quella mancata candidatura nessuno mi ha mai dato risposte chiare, forse era troppo imbarazzante. Certo, io mi sono convita di essere una “candidata scomoda” e in parte ne sono fiera. Nel mio libro “Ad Alta Quota. Storia di una donna libera” racconto quella vicenda e certamente nel titolo c’è la risposta alla sua domanda: sono una donna libera! Rispondo solo alla mia coscienza, all’interesse del mio Paese e delle donne e forse questa non contendibilità non è proprio benvoluta dai partiti che, ricordiamolo, hanno ai vertici solo e sempre uomini!

Lei, in quanto donna, come ha conciliato nella sua vita impegno sociale, lavoro e famiglia e quali progetti ha Lella Golfo per il futuro?

Con grande fatica, come tutte le donne. Racconto sempre che da ragazzino mio figlio andava a scuola con la chiave di casa attaccata al collo perché non potevo permettermi il lusso di tate e babysitter e poteva capitare che quando tornava a casa io fossi impegnata al lavoro. L’ho cresciuto da sola e ne sono fiera ma vorrei che le giovani donne potessero affrontare la maternità – e ancor prima la decisione di metter al mondo un figlio – con maggiore serenità e libertà. Ne hanno diritto e da quel diritto passa la sopravvivenza del nostro Paese, un Paese con le culle vuote.

Di progetti in cantiere ne abbiamo tantissimi! A settembre è uscito nelle librerie la nostra ultima fatica: “Donne che fanno la differenza” (Marsilio Editore), il libro realizzato con il contributo di Intesa Sanpaolo e con la prefazione della Presidente del senato Maria Elisabetta Alberti Casellati che racconta la storia dei 30 anni della Fondazione Marisa Bellisario. Con la Rai, poi, siamo riuscite a “salvare” l’edizione 2020 del Premio Marisa Bellisario che andrà in onda sabato 17 ottobre.

È certamente uno dei momenti più difficili della storia recente e bisogna essere cauti, prudenti. Ma sono anche convinta che questa immane tragedia può trasformarsi in una grande opportunità per cambiare passo, per colmare tanti gap che intralciano la crescita del Paese. Io mi auguro che invece di 30 indietro, il Covid possa far fare alla donne un grande salto in avanti. Non possiamo scordare le immagini delle “eroine”, le donne in prima linea che hanno traghettato il Paese fuori dal lockdown. Credo che in quei mesi terribili tutto il Paese abbia maturato una consapevolezza nuova e diversa anche sul ruolo femminile nella società. Come Fondazione Marisa Bellisario lavoreremo duramente perché quella consapevolezza si tramuti in azioni concrete e in un cambiamento reale.

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