A pochi giorni dalla presentazione ufficiale all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, il primo settembre alle ore 12 all’interno dell’Italian Pavilion, cresce l’attesa per Aria e Libera, i cortometraggi scritti e interpretati da Barbara Sirotti con la regia di Brace Beltempo. Due opere che intrecciano autobiografia e sperimentazione visiva, affrontando il tema della violenza di genere con un linguaggio che oscilla tra realismo e distopia. Un percorso già premiato in Italia e all’estero, che ora approda al Lido con un evento-dibattito di grande impatto.
Abbiamo incontrato Barbara Sirotti per parlare di cinema, memoria e impegno sociale.

Barbara, “Aria” e “Libera” raccontano una vicenda autobiografica con un linguaggio che oscilla tra realismo e distopia. Come sei riuscita a trasformare un dolore così personale in un’opera artistica universale?
Un’oscillazione voluta: da un lato la realtà di ciò che era accaduto, dall’altro una sua deformazione, perché era proprio così che la percepivo. La vittima di violenza vive spesso una visione alterata, distorta, del mondo.
Il mio intento era arrivare a ciò che riguarda tutti noi, alla nostra società, partendo da un vissuto personale. Non volevo raccontare soltanto la mia esperienza, ma attraverso di essa parlare di qualcosa di più ampio. Purtroppo lo vediamo ogni giorno: la cronaca riporta continuamente episodi di violenza, dal femminicidio – nella sua forma più grave – fino a violenze subdole, vigliacche, come quelle veicolate da certe pagine social, che trasformano la donna in un trofeo da esibire al branco, riducendola a “carne da macello”.
Chiaro, non tutti gli uomini sono così, e non bisogna mai generalizzare, così come esistono anche forme di violenza femminile sugli uomini. Ma la realtà che stiamo vivendo è drammatica. Ricordo che già qualche tempo fa i dati ISTAT segnalavano un aumento del 69,9% delle chiamate di soccorso da parte delle donne. È lì che ho capito che non si trattava solo della mia storia, ma di un problema enorme e collettivo.

Nei due corti emerge un “tempo sospeso”, quasi onirico, che ricorda la sensazione del post lockdown. Perché hai scelto questa chiave di racconto per parlare di violenza di genere?
Il primo lockdown e il periodo immediatamente successivo sono stati momenti che tutti ricordiamo bene e che, con la stessa facilità, abbiamo quasi dimenticato. Abbiamo applaudito dai balconi, ci siamo detti che saremmo usciti migliori, ma non è stato così.
Quella condizione ci ha costretti a restare chiusi in casa, e per molte donne ha significato convivere a stretto contatto con un partner che si è rivelato un carnefice. Ma non solo: in generale siamo stati obbligati a fare i conti con noi stessi e con chi ci era accanto. Per molti, quei conti non sono tornati.
In “Libera” sollevi una domanda molto forte: “Siamo davvero in grado di proteggere le donne o ci limitiamo a dire semplicemente: dovete denunciare?”. Qual è, secondo te, il limite più grande della nostra società in questo senso?
Questa per me è una domanda cruciale. Spesso la prima cosa che mi viene chiesta è: “Hai denunciato?”. Come se la denuncia fosse l’unica soluzione. Io non metto in dubbio che denunciare sia fondamentale, ma non sono affatto sicura che basti a mettere al sicuro una vittima.
Lo dimostrano purtroppo i fatti di cronaca: penso al caso recentissimo di un braccialetto elettronico difettoso che ha consentito a un uomo già denunciato di avvicinarsi alla sua vittima e ucciderla. È terribile, ma reale. Per questo resto nella domanda: siamo sicuri che la denuncia, da sola, sia sufficiente a proteggerci?
Hai potuto contare su voci e interpreti straordinari come Luca Ward, Francesco Pannofino, Benedetta Degli Innocenti e Alex Poli. Che tipo di valore aggiunto hanno portato al progetto?
Queste voci meravigliose, che conosciamo e ascoltiamo quasi ogni giorno, hanno dato un contributo immenso. Luca Ward, Francesco Pannofino, Benedetta Degli Innocenti e Alex Poli hanno reso i miei lavori più forti e incisivi. Non smetterò mai di ringraziarli per la disponibilità e per aver compreso la gravità del tema.
Quando hanno letto il progetto, la prima cosa che mi hanno chiesto è stata: “Cosa possiamo fare per aiutare?”. E il loro sì è stato per me un diamante prezioso che porterò sempre con me.
Una persona a cui tengo molto mi ha fatto notare una chiave di lettura bellissima: dopo la violenza rimane il buio, ma il suono resta. Forse per questo mi hanno colpito così tanto le loro voci, come se fossero un’eco che continua a vivere dentro la memoria.
I tuoi lavori hanno ricevuto riconoscimenti in Italia e all’estero, sono stati presentati in vari Festival – da Roma a Cannes – e ora approderanno all’82ª Mostra del Cinema di Venezia. Che cosa significa per te questo traguardo?
Un traguardo superlativo, che fino a poco tempo fa mi sembrava irraggiungibile. “Libera” è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma ed è arrivato fino a Cannes, dove ha ricevuto due riconoscimenti importanti al Marché du Film – Seventh Art Award.
Per chi fa cinema, Cannes e Venezia sono le vette più alte. Venezia, in particolare, è il festival più antico e prestigioso del mondo, e porta lustro all’Italia intera. Pensare che porterò lì i miei corti mi emoziona profondamente, mi vengono i brividi ogni volta che ci penso.
Sono onorata e ringrazio l’Italian Pavilion per aver accettato la mia proposta, offrendo a questi lavori uno spazio così prestigioso e, soprattutto, la possibilità di continuare a parlare di un tema tanto urgente.
È stato annunciato che “Aria” e “Libera” diventeranno una serie televisiva. Cosa puoi anticiparci di questo nuovo progetto e in che modo pensi che la serialità possa amplificare ancora di più il messaggio dei corti?
Si tratta di un progetto ancora in fase di sviluppo, sia dal punto di vista della scrittura che della produzione. Posso dire che la serie affronterà lo stesso tema, ma con una trama diversa da quella dei corti, per evitare ripetizioni e ampliare lo sguardo.
Questa volta il linguaggio sarà più vicino al noir e al thriller, proprio per coinvolgere ancora di più lo spettatore e portarlo dentro la complessità della tematica. L’arte ha sempre questa capacità straordinaria: smuovere gli animi. E chissà, forse proprio attraverso un racconto noir riusciremo a far riflettere in modo ancora più profondo.