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Frida Kahlo. La mostra "Oltre il mito" a Milano è un'esperienza emozionale
ARTE

Frida Kahlo. La mostra “Oltre il mito” a Milano è un’esperienza emozionale

Abbiamo visitato per voi la mostra di Frida Kahlo al Mudec di Milano

La prima cosa che ci viene da dire, così, a caldo, è che bisogna andarci. Anche se non capite niente di arte, anche se Frida vi sembra ormai sia diventata un’icona sfruttata, anche se l’avete già vista a Roma qualche anno fa.

Non solo perché la mostra riunisce per la prima volta in Italia e dopo quindici anni dall’ultima volta tutte le opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti e ampie collezioni di Frida Kahlo al mondo, e con la partecipazione di autorevoli musei internazionali che presteranno alcuni dei capolavori dell’artista messicana mai visti nel nostro Paese.

La mostra  “Frida Kahlo. Oltre il mito” è un’esperienza emozionale, dalla quale si esce rinforzati o completamente svuotati. Chiunque certamente riuscirà a trarre qualcosa da portare a casa, fosse solo per i colori della frutta che sembra appena sbucciata e posata sulla tela. Per la passione che traspirano le lettere, i biglietti, le foto, i bozzetti in cui lei racconta del suo amore per Diego Rivera. Per l’installazione in cui Frida è a colloquio con la morte, lei, l’artista di “Viva la vida”. 

Diego Sileo, curatore della mostra, ha cercato, ricercato, studiato per sei anni una Frida inedita e l’ha trovata, anche e soprattutto, nella sua casa a Città del Messico, Casa Azul da dove provengono gran parte delle suggestioni.

Nel labirinto di sale del Mudec ci sono tutti i volti di una donna che ha sofferto, che ha amato, odiato, viaggiato, creato. Una donna che ha preso coscienza della felicità e l’ha persa un istante dopo; che ha visto martoriato il suo corpo e lo ha ritratto nelle sue opere più significative.

Una donna che parlando del suo uomo, diceva: “Nella vita ho avuto due incidenti: il primo sul bus, il secondo quando sposai Diego”.

di Roberta Biasi