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Francesco Cataldo
INTERVISTE MUSICA

Francesco Cataldo: “La mia musica? Ispirata da San Francesco”

Francesco Cataldo è un chitarrista e compositore siciliano, un jazzista raffinato che con la sua musica fatta di trame leggere e delicate, ha saputo stupire anche i grandi del jazz. “Giulia”, il suo nuovo album, profuma della sua terra e, come nel brano dedicato alla splendida “Levante” (di Ortigia, Siracusa), ne evoca la bellezza. Francesco è ancora il “picciriddu”, il fanciullino di sempre che sa guardare alla vita con stupore e attenzione per le cose semplici ma preziose. Un’eleganza e una poetica che contraddistinguono le sue composizioni, per le quali sa attendere, senza fretta assaporandone ogni fatica, ogni sofferenza come per mettere al mondo un figlio.

La tua musica nasce nel silenzio, un “deserto” che riesci a fare dentro di te. Non è un controsenso per un musicista?

Trattandosi di jazz, i modi e i tempi sono diversi. E’ necessario lo svuotamento da formule, costrutti e influenze; non è mai un vuoto sterile, ma un deserto riflessivo. Un processo per liberarsi dagli ascolti e gli studi, che porta a un punto di spaurimento in cui non si hanno riferimenti: è lì che se ne trovano altri e nasce il nuovo. In definitiva, si alternano momenti di astinenza e di fame di musica, un po’ come per il cantautore, anche senza cantare.

Francesco Cataldo

Francesco dalla Sicilia a New York: come ha cambiato la tua vita personale e artistica?

Quando sbarchi a New York per fare un disco con un signore del jazz che si chiama Scott Colley, che in Italia aveva suonato solo con Bollani e Pieranunzi e poi torni in Sicilia, non è facilissimo. La mia scelta è stata di non suonare più dovunque, ma di tornare nei jazz club con i miei brani e con i miei musicisti, una crescita importante da non confondersi con snobismo sterile. Chiunque persegua degli obiettivi si allena, si prepara, lavora per raggiungerli alzando l’asticella dopo esserci riuscito. Anche per me è stato così e oggi scelgo di fare meno date, ma di qualità.

Definisci la tua musica semplice: una semplicità che trova radici e significato nella figura di San Francesco d’Assisi. Che ruolo ha avuto nella tua vita?

A parte il nome, San Francesco mi ha sempre attirato anche come personaggio storico. Ero ancora bambino quando rimasi folgorato dalla sua figura e affascinato da Assisi che ho sempre considerato essere un luogo magico. Per me la sua filosofia è fonte d’ispirazione, perché non è solo uno spogliarsi di cose materiali, ma un modo di guardare al creato e alla vita, che mi appartiene. Mi sono sposato ad Assisi e oggi quando mi è possibile, ci torno volentieri, trovandovi sempre pace. Credo che la mia musica, in qualche modo, sia stata influenzata da questa semplicità, che fa parte di me e del mio pensare. La perfezione quando suono non m’interessa, ma quel che conta per me è riuscire a trasmettere le emozioni con la musica senza soffocarle con inutili esercizi di stile.

Dopo il successo internazionale di “Spaces” del 2013, hai da poco pubblicato un nuovo disco. Parlaci di “Giulia”…

“Giulia” è il nome di mia figlia, fotografata in copertina alla quale è dedicato questo disco autobiografico. Realizzato dopo il dovuto distacco da “Spaces”, rappresenta una maturazione importante che mi ha permesso di raccontare attraverso la tessitura di nuove trame, pagine di vita. Ho avuto l’onore e la fortuna di registrarlo con Marc Copland al piano, un gigante del panorama jazzistico europeo e una coppia ritmica d’eccezione formata dall’impeccabile Piero Leveratto e dal batterista americano, “in punta di bacchette”, Adam Nussbaum.

Nel leggere le incredibili recensioni di “Giulia” cosa provi?

Mi sento felice e provato come dopo un parto, del quale credo anche di avere avuto la depressione che spesso tormenta le madri. Questo figlio che hai portato dentro coccolandolo, ora è di tutti ed è impossibile non sentirne il vuoto. Suonare con gli americani è sempre impegnativo, perché se da una parte ci sono la voglia e la gioia di mostrare loro le tue composizioni, c’è anche la preoccupazione di affidargliele. Allo stesso modo per un americano suonare il nostro jazz comporta una comprensione e una sensibilità particolari. E’ come quando un bambino deve imparare a giocare con gli altri, anche quando parlano un’altra lingua. In sala si deve imparare a giocare con quei brani, quelle tessiture, tutti  insieme. Quando poi si trova la giusta intesa, il vero equilibrio, è magia pura. Oggi mi sto gustando questo senso di pace e mi preparo finalmente alla prima data live in cui presentare “Giulia” in quartetto il 25 luglio all’Anfiteatro Falcone e Borsellino per Catania Jazz.

(photo credit: al piano, Andrea Masciocchi; alla chitarra, Walter Silvestrini)

Ascolta “Two Ways” di Francesco Cataldo:

 

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